Zolf J. Kimbly
Ecco che nasceva un'altro giorno, l'ennesima monotona alba rossastra. Molti avrebbero goduto nell'osservare tale visione, lui no, ormai gli erano indifferenti quei primi raggi che illuminavano la sua cella. Erano anni che succedeva, sempre nello stesso identico modo, cambiava solo l'ora e il calore che infondevano in quel luogo grigio e spento.
Ad un lato della cella, contro un'angolo, era sistemata una vecchia branda dalle molle cigolanti e coperta da un panno vedre bosco un pò troppo lungo per il letto e rattoppato in qualche punto. Zolf James Kimbly aveva già aperto gli occhi al mondo da qualche minuto, aspettando senza troppa ansia la sirena che indicava la sveglia per i detenuti. Sempre il solito insulso suono, potente e alla lunga fastidioso, che tutte le mattine rimbombava nella sua testa come una campana. Ormai aveva smesso di contare le mattine.
Scostò la coperta con i piedi, liberando il corpo dalla sua stetta avvolgente. Mosse appena le dita e un poco le braccia, roteò appena i polsi e si mise a sedere sul materasso. All'altezza dei polsi era imbragato con una lastra metallica che distanziava le braccia in modo che i palmi non andassero mai a congiungersi, neanche i poplastrelli dei medi si sfioravano. Inizialmente era stato molto, molto, fasridioso, ma dopo tutti quegli anni te ne fai una ragione, ed un abitudine. Indossava una tuta grigio topo, con una targhetta in cotone con il suo nome e il suo numero, nero su bianco. I lunghi capelli neri, sciolti e selvatici, cadevano lisci sulla schiena, mentre una barbetta incolta faceva capolino dal mento appuntito.
Un altro patetico giorno.
Si alzò e si stiracchiò, si infilò le scarpe e aspettò la guardia che doveva accompagnarlo in mensa. Nonostante fosse stato reso innoquo, non ci si fidava abbastanza, lui aveva una scorta personale. Che palle.